Apr 12 2017
Cosa resterà, di questi anni 80?
Volevo parlarvi del nuovo report “Qualità della sessione” che presto farà capolino anche nei vostri Analytics, ma tutto sommato il post di Enrico Pavan è completo e buono, e se volete anche qualcosa in inglese vi punto verso AnalyticsPros.
Tanto per riassumere ai pigri che non cliccheranno i link, Google Analytics userà un sistema di machine learning per attribuire un punteggio di qualità alle sessioni sul sito – deve essere un ecommerce, e anche con dei volumi interessanti – in modo da suddividere il totale in sessioni con bassa o altissima propensione alla conversione. Da qui a farne dei segmenti, audience, liste di remarketing il passo è breve, e le strategie di marketing che si possono applicare sono ovviamente molte e interessanti.
Più che altro colgo lo spunto per una riflessione sul ruolo dell’analista del futuro, adesso che praticamente abbiamo:
- Un sistema che cataloga automaticamente le sessioni in base alla propensione alla conversione
- Un sistema che crea goal intelligenti
- Un sistema che crea audience intelligenti
- Un sistema che ti avvisa in modo smart dei fenomeni sui tuoi dati
Il machine learning ci ruberà il lavoro?
io credo di no, non nell’immediato almeno. Vedete, il grande problema che si cela dietro a tutta questa automazione è che si basa sul presupposto che l’Analytics sia perfetto, o per lo meno “giusto”. E di Analytics impeccabili nella mia vita ne ho visti ben pochi, nonostante tutto. Non avete idea del numero di volte in cui ancora nel 2017 riecheggia in ufficio la frase di Bartali “Gl’è tutto sbagliato, gl’è tutto da rifare” aprendo Analytics di nuovi clienti.
Come dico da praticamente sempre, se entra spazzatura nel sistema, dal sistema esce spazzatura. Ci riferivamo all’analisi prima, figuriamoci cosa succede se un algoritmo cataloga le vostre sessioni e crea automaticamente le liste sulle quali vengono spesi parte dei budget di campagna.
La seconda riflessione va nella direzione ancora poco esplorata a mio modo di vedere della data integration, ovvero delle possibilità offerte a un brand, e solo a lui, dall’unione dei dati di Analytics con quelli proprietari. Certo, alla fine si tratta sempre di portare tutto dentro Google (anche se qualche workaround esiste), ma le possibilità di targeting che vengono sbloccate, la capacità di segmentazione della user base, la pletora di nuove strategie di marketing che si possono mettere in atto sono veramente tantissime. E per fare quel lavoro, al di là della praticità o dell’essere un system integrator, richiede una conoscenza degli strumenti e una capacità di disegnare la struttura dei dati che al momento nessun robot può eseguire.
Quindi si, qualcosa di questi anni 80 resterà 🙂
Ciao Marco 🙂
Concordo più o meno su tutto. La figura dell’analista digitale sarà sempre più tecnica, legata al mondo della data quality e data enrichment, liberando tempo da (talvolta sterili, inutili o ridondanti?) attività di performance reporting e/o analisi in drilldown, sempre più demandate a sistemi più o meno automatici (anche se la strada è ancora lunga…).
Al tempo stesso dovrà migliorare la capacità di comprendere logiche, fattori di successo e principali pitfall di progetti legati alla data science (progetti ad hoc ma anche adozione di software specializzati), così da contribuire attivamente allo sviluppo degli stessi, senza subire passivamente un requisito calato dall’alto.
Più in generale è positivo che si vada in una direzione premiante per le competenze tecniche (e focalizzati su progetti tecnici) e sempre più slegati dal concetto di reportistica per il “business” (qualsiasi cosa “business” sia).
Francesco
Ciao Marco, cosa intendi con “delle possibilità offerte a un brand, e solo a lui, dall’unione dei dati di Analytics con quelli proprietari”. Cosa intendi esattamente per “brand” in questo contesto?
grazie
Ciao, un brand è un marchio o più semplicemente un cliente. Il senso è che il valore aggiunto dell’unione dei dati degli utenti è ovviamente di super-valore soltanto per lui.